Caro Direttore,
ho letto il suo articolo di fondo di domenica sulla sanità pubblica e, come spesso accade, sono d’accordo con la sua analisi.
Il problema non è solo la carenza di infermieri o di medici specialisti o formati per la medicina generale.
La carenza di medici dotati di adeguata formazione post laurea, oggi drammatica, è destinata a risolversi nel medio periodo. Le contromisure, un po’ “all’italiana” e con tutti i rischi di nuove disattenzioni della sempre volubile volontà politica, sembrano infatti destinate ad essere, nel medio termine, efficaci.
I problemi contingenti sono moltissimi, ad esempio la scarsa attrattività degli ospedali pubblici per i professionisti, sottoretribuiti e vessati da turni pesantissimi o il disinteresse della nostra Regione per una migliore organizzazione della cure primarie. Di queste si parla spesso con confuse proposte prive di progettualità concrete, dimenticando l’unica cosa che farebbe la differenza: favorire il potenziamento degli studi dei medici di famiglia, dotandoli di infermieri (qui e non in lontane strutture distrettuali o come le si vuole chiamare) e di personale amministrativo, per consentire al medico di fare veramente il medico.
I medici, inoltre, sono considerati fondamentalmente come degli ordinatori di spesa, con continui richiami all’appropriatezza che se, con tutte le dovute eccezioni, avevano un senso dieci anni fa, oggi sembrano più una scusa per mascherare un sottofinanziamento, dandone la responsabilità a chi lavora.
Il vero problema però è la sostenibilità del nostro servizio sanitario nazionale, universalistico e fondato sulla fiscalità generale: un gioiello motivo di orgoglio, ormai l’unico veramente rimasto con queste caratteristiche in Europa. Tuttavia costa troppo per quello che (sembra) ci possiamo (o vogliamo) permettere, anche se è tra quelli che costano meno e garantisce risultati analoghi ai più costosi. Costa meno di quelli fondati su mutue (cioè con una contribuzione diversa da quella della fiscalità generale, come in Francia e in Germania), molto meno di quelli fondati sulle assicurazioni private, come negli Stati Uniti.
Intanto sta avvenendo che chi può permetterselo, per evitare le liste di attesa e il pagamento del ticket, utilizza soprattutto per le prestazioni ambulatoriali, mutue integrative, spesso benefit aziendali, che in realtà diventano sostitutive per questa fascia di prestazioni e sono fiscalmente detraibili. Ma così si de-finanzia ulteriormente il servizio sanitario nazionale, provocando in prospettiva un lento scivolamento verso un sistema assicurativo, il più costoso, anche perché il sistema pubblico continuerebbe comunque a farsi carico dei pazienti più fragili e impegnativi, e il meno equo.
Anche un sistema mutualistico, con una contribuzione separata dalla fiscalità generale (in pratica una tassa a parte legata all’attività lavorativa) sembra poco proponibile (ve lo immaginate nelle aree del sud ad alta disoccupazione?).
E, ricordiamolo, un servizio sanitario come il nostro, per una famiglia a medio reddito, può fare la differenza tra il benessere e la povertà.
Quale soluzione? Forse è relativamente semplice: dobbiamo decidere che “vogliamo” permetterci di spendere di più nel servizio sanitario nazionale. Spendere di più vuol dire investire e generare anche lavoro, occupazione, ricerca e benessere.
Dobbiamo però avere il coraggio di parlarne, di affrontare il problema: attualmente non stiamo programmando, stiamo andando alla deriva.
Dott. Guido Marinoni
Presidente Omceo Bergamo